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Sebastian Amelio: «Dalla scuola della prestazione alla scuola della relazione»

di Matteo Scolari
Il dirigente dell’Ufficio di Ambito Territoriale di Verona ripercorre la nascita dell’Osservatorio in pieno Covid, illustra il coordinamento tra reti d’ambito, le ricadute dell’intelligenza artificiale e la riforma detta “4+2” (un percorso di sei anni), fino ai patti educativi di comunità e al tema del benessere degli studenti.

La scuola che verrà dovrà coniugare innovazione tecnologica e capacità critica, regole chiare (smartphone, AI) e relazioni educative forti. Verona, il più grande sistema scolastico del Veneto per numeri, sta lavorando su reti, patti e percorsi per accompagnare il cambiamento senza perdere di vista persone e comunità.

Ospite a Focus Verona Economia, Sebastian Amelio, dirigente dell’Ufficio di Ambito Territoriale di Verona, ha spiegato come è evoluto il lavoro avviato durante l’emergenza sanitaria e quali sono oggi le priorità del sistema scaligero.

Professore Amelio, in pieno Covid lei avviò un osservatorio scolastico veronese. Con quale obiettivo e con quali risultati?

Era una stagione che ha segnato una grande ferita per il Paese e per la scuola. Le prime azioni furono creare un organismo che riunisse attorno a un tavolo tutti i soggetti competenti, stabilizzando i rapporti e indicando insieme le strade di uscita da quel periodo drammatico. A distanza di anni il tentativo si è rivelato riuscito: il dialogo tra la mia amministrazione e le altre istituzioni si è stabilizzato ed è diventato una consuetudine, consentendoci di affrontare meglio tempi difficili.

Oggi quel lavoro è diventato un coordinamento stabile. Come funziona e su cosa state lavorando?

Da gennaio abbiamo promosso gli ambiti scolastici e le reti di ambito, istituendo un coordinamento tra le quattro scuole capofila per raccordare ulteriormente il sistema. Tra i temi comuni affrontati: tempi e modalità di applicazione delle linee guida sull’intelligenza artificiale, la direttiva sul divieto dei cellulari anche nelle secondarie di secondo grado, e questioni legate al benessere degli studenti.

Lei definisce l’AI una svolta “epocale”. Perché, e cosa serve alla scuola per affrontarla?

C’è un mondo prima e un mondo dopo l’intelligenza artificiale. Non è una semplice evoluzione 4.0, ma un dispositivo generativo con cui dobbiamo misurarci. Occorre saper discernere i contenuti: il tema della verità torna centrale. Servono competenze analitiche, logiche, grammaticali: è il cuore della sfida. I docenti si stanno misurando da tempo con questa innovazione e le scuole lavorano con grande capacità, ma il salto di qualità richiede soprattutto un esercizio critico strutturato.

Passiamo alla riforma nota come “4+2”. Lei preferisce parlare di un percorso di sei anni: perché?

Da anni il Paese lavora al riordino dell’istruzione tecnica e professionale per un raccordo più efficace con il lavoro. Oggi possiamo proporre ai giovani un percorso di sei anni che consente, nell’arco temporale, di conseguire il titolo conclusivo dei percorsi quinquennali, una qualifica professionale e, se si sceglie, l’accesso all’istruzione tecnica superiore. È un impianto innovativo anche sul piano metodologico: il 50% della docenza proviene dal mondo del lavoro, con stage e tirocini anche all’estero. In sei anni si possono addirittura ottenere tre titoli, fermo restando che ci si può uscire anche al termine del quarto anno o del sesto. A Verona e provincia abbiamo quattro istituzioni che erogano questi percorsi: è fondamentale raccontarlo come riorganizzazione di filiera, non come riduzione.

Quali sono i numeri del sistema scolastico veronese oggi?

Quando parliamo di Verona parliamo del sistema più grande del Veneto per numeri: 99 scuole, circa 102.000 studenti e quasi 11.000 tra docenti e personale ATA. È una macchina poderosa: ciò che accade qui è significativo anche per l’intera regione.

Benessere e “scuola della relazione”: che cosa intende concretamente?

Viviamo il paradosso dell’iperconnessione che produce solitudine. Il futuro è spesso percepito con tratti di minaccia, e questo pesa su giovani e adulti. Alla scuola della prestazione dobbiamo affiancare una scuola della relazione: capace di ascolto, capace di dare parola e di costruire legami. E serve passare da “scuola nella comunità” a “scuola di comunità”: patti educativi di comunità che riannodino i fili col territorio. In provincia li hanno già sottoscritti otto scuole: è la direzione su cui vogliamo continuare.

Ha citato anche un problema di lessico e linguaggio nei giovani.

Il patrimonio lessicale si è molto ridotto: con meno parole si pensa e ci si esprime meno, si costruiscono meno relazioni. Le scuole dovrebbero andare in controtendenza: mi piacerebbe che a inizio anno, soprattutto nella primaria, si regalasse un vocabolario a ogni studente e che alla fine del percorso i ragazzi uscissero con molte più parole. Avere parole significa poter dare forma al pensiero, al dolore, ai legami: è una questione educativa decisiva.

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