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Verona, il metalmeccanico in apnea. Non è una crisi, è un sistema che scricchiola

di Matteo Scolari
Licenziamenti, delocalizzazioni e crisi aziendali a catena: la provincia scaligera affronta un periodo di difficoltà serio che mette in discussione l’intero modello produttivo.

A Verona la crisi del settore metalmeccanico non è più un’ipotesi, né una somma di casi isolati. È un dato di fatto. Da settimane si moltiplicano gli allarmi, le procedure di licenziamento, le assemblee sindacali, le richieste di cassa integrazione. Vetrerie Riunite, Borromini, Xhailog, Breviglieri, George Fisher…. Nomi noti, radicati, in alcuni casi storici. Realtà distribuite lungo tutta la provincia, da Nogara a Minerbe, da Colognola ai Colli al capoluogo. Eppure, il copione è sempre lo stesso: reparti che chiudono, proprietà che si eclissano, lavoratori che si ritrovano con in mano una lettera e nessuna prospettiva.

Non si tratta di coincidenze. Ciò che sta accadendo in terra scaligera — e in parte anche nel resto del Paese — ha i contorni di una crisi sistemica. Non è solo la perdita di commesse o la congiuntura economica a incidere, ma una trasformazione profonda del modello industriale, con le sue ricadute occupazionali e sociali. Le imprese metalmeccaniche, specie quelle entrate nell’orbita di fondi esteri o multinazionali, si stanno dimostrando sempre meno radicate nei territori in cui operano. Spesso, anzi, li abbandonano senza troppe spiegazioni, inseguendo logiche finanziarie che poco o nulla hanno a che fare con la responsabilità sociale d’impresa.

Nel frattempo, le istituzioni si muovono, ma faticano a tenere il passo. La Regione Veneto, sollecitata a più riprese dai sindacati, ha convocato tavoli di crisi e tenta mediazioni. La Provincia di Verona ha risposto all’appello della FIOM proponendo un tavolo unico con sindaci, organizzazioni dei lavoratori e Confindustria. Ma proprio da quest’ultima — finora silente, secondo la critica di chi rappresenta i lavoratori — ci si aspetta un’assunzione di responsabilità più concreta. Perché quando intere filiere produttive vacillano, non può esserci spazio per il silenzio.

Il sindacato, dal canto suo, non resta a guardare. La mobilitazione del 28 marzo, con scioperi e cortei in tutta Italia e anche a Verona, è solo l’ultimo segnale di una tensione crescente. Le richieste sono chiare: salari adeguati all’inflazione, contratti rinnovati, sicurezza nei luoghi di lavoro, stabilità occupazionale. Chiedono, in sostanza, che il lavoro torni al centro delle politiche industriali e che le aziende, soprattutto quelle che hanno ricevuto contributi pubblici, non possano delocalizzare o licenziare con leggerezza.

Ma serve un passo in più. Serve una visione strategica. È tempo che la politica, a tutti i livelli, rimetta al centro la questione industriale e vari finalmente strumenti legislativi efficaci: disincentivi alle delocalizzazioni, vincoli sull’utilizzo dei fondi pubblici, piani di riconversione industriale, incentivi alla formazione e alla ricollocazione. Non si può più navigare a vista, mentre centinaia di famiglie rischiano di perdere tutto.

Lavoratori di Vetrerie Borromini in sciopero
Lavoratori di Vetrerie Borromini in sciopero.

Verona non può permettersi di diventare la cartina tornasole di un declino annunciato. Il metalmeccanico, con la sua storia e le sue competenze, è ancora una colonna portante del sistema economico locale. Ma se si continua a ignorare l’evidenza di una crisi strutturale, se si interviene solo dopo gli annunci di licenziamento, allora la spirale sarà difficile da fermare.

La battaglia che oggi si combatte nei capannoni, nelle fabbriche, nei cortei e nei palazzi della politica non riguarda solo il presente di chi lavora. Riguarda il futuro industriale di un’intera provincia. E, forse, di un intero Paese.

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