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Nisio Paganin: «I buyer internazionali di formaggio italiano chiedono storie»

di Matteo Scolari
Il presidente di Caseifici GranTerre racconta la crescita dell’export, la sfida dell’Italian sounding e il valore della filiera lattiero-casearia nazionale.

Con un fatturato vicino al miliardo di euro e una presenza consolidata sui mercati internazionali, Caseifici GranTerre è oggi uno dei gruppi leader del settore lattiero-caseario italiano. Nato nel 2021 dalla fusione tra Parmareggio e Agriform, rappresenta un modello di integrazione di filiera che ha rafforzato la competitività del comparto e valorizzato i prodotti DOP italiani. Il presidente Nisio Paganin ripercorre le principali sfide e opportunità di un settore che continua a crescere, trainato dall’export e da un forte legame con il territorio.

Presidente, partiamo dai numeri: qual è oggi il peso del settore lattiero-caseario italiano?

L’Italia produce circa 14 milioni di tonnellate di latte. La peculiarità è l’altissima quota di prodotto certificato: quasi metà della trasformazione è DOP/IGP. Il baricentro, in termini di impatto sulla filiera, resta nei due grandi “pilastri” Grana Padano e Parmigiano Reggiano: insieme intercettano oltre il 40% del latte nazionale e condizionano, nel bene e nel male, l’andamento dell’intero comparto. Negli ultimi tre anni il settore ha goduto di buona salute: domanda sostenuta, valorizzazione in categoria premium e maggiore riconoscibilità internazionale dei marchi di origine.

Crescita all’estero e consumi interni: dove si vince e dove si soffre?

In Italia scontiamo l’“inverno demografico” e abitudini alimentari che comprimono i volumi. All’estero, invece, la spinta è strutturale: oggi il lattiero-caseario contribuisce positivamente per oltre 3 miliardi alla bilancia commerciale del Paese. Quando ho iniziato si esportava poco più del 10%: adesso, per molte DOP stagionate, l’export è indispensabile. Il valore si costruisce fuori confine con continuità, presidio dei canali e coerenza di posizionamento.

Dazi USA: quanto incidono davvero sulle vostre DOP?

Molto meno di quanto si tema. Negli Stati Uniti è in vigore un dazio flat del 15% che, di fatto, pagavamo già. All’inizio c’è stato perfino un disguido in dogana (15 + 15), poi risolto grazie all’intervento istituzionale: oggi l’onere è quello storico. Il quadro cambia per chi partiva da esenzione, come il pecorino romano, che soffre di più. Per Grana Padano e Parmigiano Reggiano il mercato americano resta strategico e reattivo.

Italian sounding: un ostacolo o un avversario strutturale?

È una sfida enorme e continua. Negli USA il 98% dell’“Asiago” venduto è prodotto localmente. Quando abbiamo portato l’Asiago originale sugli scaffali di grandi catene, molti clienti lo percepivano come una copia del loro “asiago”. Diverso il caso di Grana Padano e Parmigiano Reggiano: la registrazione dei marchi e una giurisprudenza favorevole (in Europa, per esempio, la vicenda “Parmesan”) hanno permesso una tutela più efficace. Resta però difficile “poliziare” il mondo: normative diverse, mercati vastissimi e una tradizione locale di imitazioni rendono il lavoro lungo e complesso. La risposta è fatta di controlli, cause mirate e soprattutto educazione del consumatore.

GranTerre: perché unire Parmareggio e Agriform? Quali effetti concreti?

Perché due più due può fare cinque. Dal 2017 abbiamo iniziato un confronto serio su sinergie commerciali (presenze in 60 e 40 paesi), industriali (confezionamento, logistica), informative. L’ostacolo principale? I campanili. Li abbiamo superati facendo parlare tra loro gli allevatori: stessi problemi, stessi obiettivi. Dal 1 gennaio 2021 l’operazione è realtà: il primo anno post-integrazione i ricavi aggregati sono cresciuti sensibilmente e oggi viaggiamo verso il miliardo. L’altro passo è stato cambiare nome: da marchi territoriali a un brand ombrello capace di rappresentare tutti e sostenere investimenti importanti in comunicazione.

Come si crea valore oltre il prodotto? Cosa chiedono i buyer internazionali?

Chiedono storie. Negli USA i buyer mi dicono: “Il formaggio è buono, ma vogliamo sapere da dove viene”. Funziona quando racconti l’origine, le malghe, le tecniche, la comunità che c’è dietro. È così che un formaggio diventa ambasciatore dell’Italia: con autenticità, tracciabilità, coerenza di racconto e continuità di servizio. Anche la diversificazione d’uso aiuta: snack di DOP, porzionati on-the-go, formati domestici facili da capire. Sono scelte che ampliano le occasioni di consumo senza snaturare l’identità.

Guardando avanti: priorità e rischi da presidiare?

Tre priorità. Primo: difendere i marchi e i disciplinari, perché la reputazione si costruisce in decenni e si erode in fretta. Secondo: potenziare l’export in modo selettivo, evitando guerre di prezzo e privilegiando canali che valorizzano la DOP. Terzo: fare sistema nella filiera, dalla stalla allo scaffale, per avere massa critica su investimenti, sostenibilità e innovazione. I rischi? Volatilità delle materie prime, barriere non tariffarie e il permanere dell’Italian sounding. Si gestiscono solo con organizzazione, presidi legali e comunicazione continua.

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