Albino Armani: «Il Pinot grigio è la nostra passione, ma anche una sfida da consolidare»
di Matteo ScolariDal 1607 la famiglia Armani vive di viticoltura. Una storia che affonda le radici nella montagna trentina e che oggi si estende tra Trentino, Veneto e Friuli Venezia Giulia. Albino Armani guida un gruppo vitivinicolo di oltre 400 ettari di vigneti, con cinque cantine distribuite nel Nord-Est. Già presidente del Consorzio Doc delle Venezie, oggi è consigliere e continua a promuovere la crescita del Pinot grigio, vino simbolo della produzione italiana all’estero.
La storia della sua azienda ha origini molto lontane. Come nasce la cantina Albino Armani?
Siamo in viticoltura dal 1607. L’azienda nasce in Trentino, in una montagna povera come la Val di Gresta, dove la necessità ha insegnato la resilienza. Da lì ci siamo spostati in Val d’Adige, prima a Chizzola e poi, più a sud, a Dolcè, dove oggi si trova la sede principale. Nel tempo ho portato la nostra presenza anche in Friuli e in Valpolicella: cinque cantine nel Nord-Est, tutte legate alla montagna, che resta la mia identità naturale.
Parliamo dei numeri: una dimensione produttiva importante.
Oggi contiamo circa 420-430 ettari di vigneto, quasi tutti di proprietà. La parte più ampia è tra Trentino e Veneto con circa 220 ettari, mentre in Friuli ne abbiamo altri 200. Produciamo soprattutto vini bianchi, pur mantenendo la nostra radice nella Valpolicella.
Fino a pochi mesi fa è stato presidente del Consorzio Doc delle Venezie. Cosa rappresenta il Pinot grigio per lei?
Per me è una passione viscerale. È una varietà rosata, declinata in bianco, complessa e ancora non pienamente espressa nelle sue potenzialità. È difficile da coltivare e richiede grande attenzione del viticoltore. Da qui è nata anche la spinta a creare un quadro normativo serio: la Doc e la fascetta di Stato hanno dato credibilità al Pinot grigio, distinguendolo dagli altri vini generici.
Come si posiziona oggi questo vino sul mercato?
Il Pinot grigio è un vino moderno per natura. Ha sempre avuto un forte legame con il mercato americano grazie alla sua grande bevibilità e versatilità. Nonostante le difficoltà, continua a crescere e vogliamo aprirlo anche a nuovi consumatori, introducendo versioni a gradazione più bassa senza snaturarne la qualità.
A proposito di mercato americano: i dazi possono influire sull’export?
I dazi sono un problema, ma non credo saranno catastrofici. I nostri vini del Nord-Est, dal Pinot grigio al Prosecco, mantengono un prezzo competitivo, tra gli 8 e i 12 dollari a bottiglia. Anche con un lieve aumento, il consumatore americano non abbandonerà i vini italiani. La Francia, invece, potrebbe subire un impatto maggiore sui prezzi.
Che prospettive vede per i vini della Valpolicella?
La Valpolicella è cresciuta molto, sia nei prezzi delle uve sia nel valore dei terreni. Credo che l’Amarone saprà riposizionarsi, puntando su uno stile più equilibrato e bevibile. Nelle zone collinari e montane, come la nostra area a nord di Marano, nascono vini più snelli che oggi incontrano meglio il gusto del mercato.
Quanto contano oggi tecnologia e assicurazioni in vigneto?
La tecnologia ha trasformato la campagna. Oggi si lavora con sistemi satellitari e macchinari di precisione, ma i costi sono alti e rischiano di escludere le piccole aziende. Bisognerà pensare a formule che permettano anche a loro di innovare. Sul fronte climatico, invece, non ci sono alternative: servono assicurazioni solide e una maggiore cultura della prevenzione, perché i fenomeni estremi sono ormai parte della nostra quotidianità.
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