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Referendum, Recchia: «La legge dovrebbe farla il Parlamento, non cancellarla il popolo»

di Matteo Scolari
Massimo Recchia, sindacalista ed esponente di Italia Viva Verona analizza i quesiti del referendum dell'8 e del 9 giugno, invitando i cittadini a votare no sui temi che riguardano il lavoro, in particolare il Jobs Act.

Alla puntata del 30 maggio di Focus Verona Economia, dedicata ai referendum dell’8 e 9 giugno, è intervenuto anche Massimo Recchia, rappresentante di Italia Viva Verona. Pur riconoscendo la legittimità dello strumento referendario, Recchia ha espresso una posizione critica nei confronti dei quesiti abrogativi proposti dalla CGIL, sottolineando l’esigenza di una riforma organica e moderna del diritto del lavoro.

Italia Viva come valuta questi referendum?

Riconosciamo che il referendum è uno strumento democratico importante. Se i cittadini promuovono un’iniziativa del genere, vuol dire che qualcosa non ha funzionato nel sistema legislativo. Ma la legge dovrebbe farla il Parlamento, non cancellarla il popolo. È un segnale di debolezza istituzionale. Per questo, invitiamo i cittadini ad andare a votare, ma su diversi quesiti siamo per il no.

Sul primo quesito, che riguarda il reintegro per i licenziamenti illegittimi, qual è la vostra posizione?

Credo che l’obiettivo sia più simbolico che concreto. Il Jobs Act ha effettivamente eliminato il reintegro per i nuovi assunti dopo il 7 marzo 2015, ma i casi di licenziamento illegittimo sono numericamente bassi. Inoltre, l’abrogazione di quella norma ci riporterebbe indietro al 2012, alla legge Fornero. Non credo sia utile. I problemi attuali del lavoro non si risolvono tornando al passato. Serve una riforma strutturale, non un’operazione nostalgica.

Quali sono le vostre critiche sul secondo quesito, che elimina il tetto massimo di sei mensilità per i risarcimenti nelle piccole imprese?

Abrogare quel tetto genera un’enorme incertezza giuridica per le piccole aziende. Se il giudice può decidere liberamente l’indennizzo, il datore di lavoro non ha più riferimenti chiari. Questo rischia di scoraggiare le assunzioni e generare contenziosi infiniti. Le piccole imprese vivono spesso di equilibri fragili: non è pensabile scaricare su di loro un rischio economico incontrollabile. Serve una tutela per entrambe le parti, non una giustizia punitiva.

Il terzo quesito propone di limitare l’uso dei contratti a termine. Come rispondete?

Il contratto a termine è parte integrante del moderno mercato del lavoro europeo. In Italia siamo allineati alla media UE con circa il 15% di contratti a termine. Il problema non è la presenza di questi contratti, ma come vengono gestiti. Il Jobs Act ha introdotto criteri di qualità, non solo di quantità. Imporre le causali sotto i 12 mesi aumenterebbe il contenzioso, soprattutto in fase iniziale. Meglio puntare su contratti di apprendistato e sulla formazione, piuttosto che irrigidire un sistema che funziona.

E sul quesito riguardante la sicurezza negli appalti?

Il tema è delicatissimo. Le morti sul lavoro sono un dramma. Ma trasferire automaticamente la responsabilità civile al committente, anche nei casi di subappalto, è una forzatura. Ci sono già obblighi e documenti di valutazione dei rischi (Duvri) che regolano le responsabilità. A mio avviso, è più utile introdurre obblighi assicurativi o fondi di garanzia obbligatori per le imprese che partecipano agli appalti. Allargare la responsabilità civile ai committenti in modo indiscriminato rischia di paralizzare il sistema e produrre effetti opposti a quelli sperati.

Come giudicate l’impatto del Jobs Act nel tempo?

Il Jobs Act ha portato a più assunzioni a tempo indeterminato e ha reso più semplice per le aziende stabilizzare i lavoratori. Lo dicono i numeri: l’aumento dei mutui concessi da parte delle banche dimostra che i contratti stabili sono cresciuti. Tornare indietro su quelle norme non risolve i problemi attuali, che riguardano soprattutto salari e formazione, non solo le tutele formali.

Sul quinto quesito, che riguarda la cittadinanza, Italia Viva è favorevole?

Sì. Siamo favorevoli alla riduzione del periodo di residenza da 10 a 5 anni per richiedere la cittadinanza. È un tema che coinvolge la sensibilità di ciascuno, ma riteniamo che sia una scelta di inclusione civile. Naturalmente, servirà accompagnare la riforma con una semplificazione burocratica e una riorganizzazione degli uffici pubblici, altrimenti rischiamo di aggiungere disordine. Ma il principio è giusto e condivisibile.

In sintesi, come si pone Italia Viva rispetto a questa consultazione?

Italia Viva è contraria ai quesiti sul lavoro perché li considera strumenti sbagliati per problemi reali. Non si migliora il diritto del lavoro abrogando pezzi di leggi, serve una riforma organica. Ma siamo favorevoli al quesito sulla cittadinanza, che riteniamo più coerente con una visione di società aperta e inclusiva. Invitiamo tutti i cittadini ad andare a votare, ma con consapevolezza.

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