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Referendum, Filice: «Vogliamo cancellare quattro leggi che hanno tolto diritti ai lavoratori»

di Matteo Scolari
Ospite di Focus Verona Economia il segretario generale dello SPI Cgil Verona, Adriano Filice, il quale invita a votare per cambiare il corso della storia e richiamare a un dovere civile.

Nel corso della puntata di Focus Verona Economia del 30 maggio su Radio Adige TV, dedicata ai referendum dell’8 e 9 giugno, Adriano Filice, segretario generale di SPI CGIL Verona, ha espresso una posizione chiara e articolata in favore del sì a tutti e quattro i quesiti sul lavoro, promossi dalla CGIL. Per Filice, i referendum rappresentano una risposta concreta al progressivo arretramento delle tutele per i lavoratori e un atto di responsabilità collettiva.

Perché SPI CGIL sostiene i referendum?

È molto semplice: vogliamo cancellare quattro leggi che hanno tolto diritti ai lavoratori. Dobbiamo chiederci: quando sono state approvate, hanno migliorato le condizioni di lavoro? La risposta è no. Ci avevano detto che togliere diritti avrebbe reso l’economia più forte e il lavoro più stabile. Oggi ci ritroviamo con salari tra i più bassi d’Europa, contratti non rinnovati e condizioni lavorative, in certi settori, quasi da schiavitù. È evidente che serve un cambio di rotta.

Parliamo del primo quesito, sul reintegro in caso di licenziamento illegittimo.

È un tema di uguaglianza e dignità. Attualmente, un lavoratore assunto prima del 2015 può essere reintegrato se il licenziamento è riconosciuto illegittimo. Uno assunto dopo, no. Perché? Perché questa disparità di trattamento? Il referendum mira a ripristinare il diritto al reintegro anche per chi è stato assunto dopo il 7 marzo 2015, sempre con decisione del giudice. È un passo per tornare a quel principio per cui chi lavora ha diritto alla stabilità e al rispetto.

Il secondo quesito riguarda i piccoli datori di lavoro. Qual è il problema?

Nelle aziende sotto i 16 dipendenti, il tetto massimo di risarcimento per un licenziamento illegittimo è oggi di sei mensilità. Questo, nei fatti, consente ad alcuni imprenditori di “mettersi in conto” il costo di un licenziamento, anche arbitrario. Chiediamo che il giudice abbia la libertà di valutare, caso per caso, e possa decidere se l’indennizzo debba essere superiore. Non è accettabile che, solo per una soglia numerica di dipendenti, i lavoratori abbiano meno diritti.

Il terzo quesito si concentra sui contratti a termine. Che situazione fotografate?

Nel 2023, in provincia di Verona ci sono state 158.000 assunzioni, di cui solo il 21% a tempo indeterminato. Il resto è precariato: contratti a termine, interinali, a chiamata, stagionali. Questo non è un mercato del lavoro sano, è una fabbrica di insicurezza sociale. L’obiettivo è reintrodurre le causali nei contratti sotto l’anno, obbligando le imprese a giustificare l’uso del contratto a termine. Basta con l’uso selvaggio della precarietà: è ora di dire che il lavoro deve essere stabile e dignitoso.

Un punto centrale è anche quello della sicurezza sul lavoro, oggetto del quarto quesito.

È un tema che ci tocca da vicino. Nel 2023 ci sono stati oltre 1.000 morti sul lavoro in Italia, molti dei quali proprio negli appalti. Spesso la catena degli appalti è lunga, opaca, e serve solo a comprimere i costi. Con il referendum chiediamo che, in caso di infortunio grave o morte e accertata responsabilità, anche il committente ne risponda civilmente. È una misura di giustizia e di prevenzione, per evitare che le grandi aziende scarichino i rischi su quelle più piccole o non controllino chi lavora per loro.

C’è anche chi invita all’astensione. Cosa ne pensa?

È grave. In un momento di crisi democratica, il voto è un dovere civile. L’astensione può essere una scelta personale, ma quando arriva da esponenti delle istituzioni è scandalosa. Il referendum è uno strumento costituzionale fondamentale, non una scorciatoia. Le giovani generazioni devono essere educate al senso della partecipazione, non al disimpegno.

Un commento finale sul quinto quesito, che riguarda la cittadinanza?

Anche se non è stato promosso dalla CGIL, lo sosteniamo con forza. Accorciare da 10 a 5 anni il periodo di residenza per poter fare domanda di cittadinanza è una questione di civiltà. Gli stranieri lavorano, vivono, pagano le tasse nel nostro Paese. Senza di loro molti settori economici, dall’agricoltura all’assistenza, si fermerebbero. Dare loro una prospettiva chiara è un atto di giustizia, non di concessione.

In sintesi, perché i cittadini dovrebbero votare sì?

Perché è tempo di riconquistare i diritti che ci sono stati tolti. Perché lavorare non può significare vivere nell’incertezza, nella povertà, nella paura di ammalarsi o di morire sul posto di lavoro. Perché il futuro si costruisce col coraggio di scegliere, non voltandosi dall’altra parte. Noi diciamo sì, cinque volte.

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