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Salvagno: «Serve più consapevolezza: l’olio non è un condimento, è un alimento»

di Matteo Scolari
Francesca Salvagno, erede di terza generazione di una famiglia di frantoiani della Valpantena, racconta la storia di famiglia e da assaggiatrice professionista ONAOO, anche i plus di un'olio di qualità.

In occasione della puntata di Focus Verona Economia dedicata al mondo dell’olio, non poteva mancare la voce di una delle realtà più storiche del territorio: il Frantoio Salvagno Giovanni, che dal 1923 produce olio nella Valpantena. In studio con noi Francesca Salvagno, terza generazione della famiglia e grande promotrice della cultura dell’olio, che ci ha raccontato il valore di una tradizione centenaria, l’impegno per la sostenibilità e l’importanza di formare il gusto dei consumatori.

Francesca, partiamo dalla storia della vostra famiglia. Come nasce il frantoio Salvagno?

La storia inizia con mio nonno Gioacchino, nel 1923. In Valpantena gli olivi c’erano già, portati dai Romani, ma mancavano i frantoi per molire. Così mio nonno, con i suoi fratelli, costruì il primo frantoio con una mozza e una pressa. Poi mio padre Giovanni, negli anni Sessanta, ebbe l’intuizione di imbottigliare l’olio, che prima si vendeva solo sfuso. Portava le bottiglie in giro per il mondo, in valigia, una alla volta. È così che abbiamo cominciato a farci conoscere.

L’imbottigliamento fu una grande innovazione, ma non fu l’unica. Come si evolse l’azienda da lì?

All’epoca l’olio era usato in casa, in modo molto semplice. Noi facevamo solo lavorazione conto terzi. Ma mio padre capì che c’erano nuovi mercati e target da raggiungere, ad esempio i tanti turisti che venivano sul Lago di Garda o a Verona. Non avevano recipienti per l’olio, così lui iniziò a organizzarsi con lattine anonime, etichette ricavate dalle scatole delle scarpe e spago. Scriveva a mano il numero di telefono. È stato lungimirante, e da lì siamo cresciuti tanto.

Lei è anche assaggiatrice professionista. Come si riconosce un olio di qualità?

L’olio extravergine è l’unico alimento che per legge deve essere sottoposto a un assaggio organolettico per essere classificato come tale. Quindi la figura dell’assaggiatore è fondamentale. Oltre alla tecnica, ci vuole consapevolezza. Quando teniamo i corsi, insegniamo a riconoscere le tre caratteristiche fondamentali: fruttato, amaro e piccante. Poi ogni palato ha preferenze diverse, ma queste tre note devono esserci. E non devono esserci difetti.

Lei fa parte dell’ONAOO, giusto?

Sì, è l’Organizzazione Nazionale Assaggiatori Olio di Oliva. Si occupa di formazione e divulgazione, ed è un punto di riferimento per chi vuole imparare a conoscere davvero l’olio.

Nel 2023 avete festeggiato il centenario con un libro, “Le nostre vite per l’olio”. A chi è dedicato?

Nel mio caso ho pensato a mio figlio. Sarebbe stato un peccato perdere certi racconti. Mio padre è una fonte inesauribile di aneddoti, e da anni dicevamo: “ci sarebbe da scrivere un libro”. Così lo abbiamo scritto, a otto mani. Ognuno ha messo la sua testimonianza. Con mia sorella Cristina abbiamo raccontato il frantoio dal nostro punto di vista, femminile, di terza generazione. Non è stato facile all’inizio, entrare in un mondo contadino e prevalentemente maschile.

Eppure oggi siete un esempio di imprenditoria femminile. Come ci siete riuscite?

Mio padre ci ha spianato la strada. Quando un contadino arrivava in frantoio, cercava l’uomo di riferimento. E mio padre gli diceva: “Cosa t’ha detto mia figlia?”. Così tornavano da noi, spiazzati. E poi tanta formazione. Dovevamo sempre dimostrare che eravamo all’altezza. Ma ce l’abbiamo fatta.

Un bel messaggio anche per le generazioni future. E parlando di futuro, la vostra è un’azienda attenta alla sostenibilità, vero?

Assolutamente sì. Siamo autosufficienti con il fotovoltaico da oltre 12 anni. Ma l’attenzione all’ambiente l’abbiamo ereditata da mio nonno. Il primo frantoio aveva presse a vapore alimentate dalla sansa, lo scarto della produzione. Già allora si recuperava tutto. Ancora oggi diamo la sansa a un sansificio che produce pellet, e l’acqua di vegetazione a un’azienda che fa biomasse. Tutto torna, tutto si riutilizza.

E poi c’è anche la cosmesi, un altro modo di valorizzare l’olio.

Sì, mia sorella ha creato una linea di cosmetici all’olio d’oliva. L’idea nasce da un ricordo: nostro nonno che si ungeva gomiti e ginocchia con l’olio. Lei l’ha trasformata in un progetto concreto, che portiamo avanti da 22 anni.

Cosa auspica per il futuro del frantoio?

Vorrei più consapevolezza. L’olio non è un condimento, è un alimento. Ha un ruolo fondamentale nella nostra alimentazione. Serve più rispetto per il lavoro dei frantoiani e per il prodotto stesso. Deve essere riconosciuto per il suo valore reale, non come un ingrediente da usare ogni tanto.

Oggi l’olio è visto anche come alternativa più sana al burro. È un cambiamento culturale importante?

Sì, finalmente è riconosciuto come “grasso buono”. Ma siamo ancora agli inizi. Siamo dove era il vino 25 anni fa, quando c’era solo “bianco o rosso”. Serve educare il palato, insegnare la varietà, la qualità, la differenza. È una strada lunga, ma è quella giusta.

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