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Renato Mason: «Burocrazia e squilibrio fiscale sono il primo freno allo sviluppo del Veneto»

di Matteo Scolari
Il segretario della CGIA di Mestre indica le criticità, tra cui la difficoltà nel reperire manodopera, che rallentano il Veneto, chiedendo alla Regione politiche forti per sostenere microimprese, formazione e competitività territoriale.

Lo sguardo lucido sui dati, il polso dell’economia reale e la voce delle micro e piccole imprese: è questo il punto di vista portato da Renato Mason, Segretario della CGIA di Mestre, intervenuto per analizzare lo stato dell’economia veneta, le priorità post elezioni regionali e le sfide strutturali che condizionano imprese, mercato del lavoro e competitività territoriale. 20251205_FOCUS_Top Imprese

Segretario Mason, qual è la fotografia dell’economia veneta oggi e quali priorità emergono dai vostri studi?

Secondo noi le sfide sono chiare. Nel sondaggio che proponiamo abitualmente emerge che la prima, soprattutto per il mondo che rappresentiamo – microimpresa, artigianato, lavoro autonomo – è la burocrazia. È un termine ampio, ma dentro ci sono decine di procedure, vincoli, adempimenti e costi che oggi soffocano chi vorrebbe mettersi in proprio. Il Veneto è particolarmente esposto proprio perché è tra le regioni con la più alta densità di imprese produttive. Se guardiamo la classifica delle province più penalizzate, Verona, Padova, Vicenza e Treviso sono tutte nelle prime posizioni: sono le realtà più dinamiche, industriali e manifatturiere, e per questo più colpite dal carico burocratico. A questo aggiungo un principio europeo troppo poco applicato: la proporzionalità. Non si può pretendere la stessa procedura e gli stessi adempimenti da chi ha due dipendenti e da chi ne ha mille. Il grande resiste, il piccolo muore.

Un altro fronte che citate spesso è quello fiscale: troppe tasse e pochi ritorni dai territori?

Sì. Diciamo sempre che è necessario dire le cose con senso di verità. Oggi l’86% delle tasse va allo Stato, ma regioni e comuni devono sostenere oltre metà delle spese. È evidente che qualcosa non torna: i territori produttivi generano ricchezza e imposte, ma hanno un ritorno insufficiente. Tuttavia ridurre la pressione fiscale senza prima intervenire sulla struttura pubblica rischia di diventare un’illusione. Serve una revisione seria della spesa, del funzionamento della macchina amministrativa, altrimenti il sistema non regge. Abbiamo debito e deficit elevati, e tutto questo pesa sui conti pubblici. Ogni riduzione dei costi del debito, come già successo, libera risorse, ma il problema è ancora enorme: debito pari al 137–138% del PIL e un peso annuale di decine di miliardi. La via per uscirne è recuperare efficienza nella spesa e allo stesso tempo aumentare la produzione di ricchezza.

Nel tema fiscale torna spesso l’evasione: quali sono i numeri che vi preoccupano?

L’evasione è concorrenza sleale verso gli imprenditori onesti. In questi anni la percentuale di economia “non osservata” è scesa, ma siamo ancora vicini al 10% del PIL, cioè circa 200 miliardi di euro che diventano una evasione effettiva attorno ai 90 miliardi. A questo si aggiunge un dato che va ricordato: dal 2020 oggi abbiamo un “magazzino” di cartelle non pagate che oscilla tra i 100 e i 150 miliardi, con circa 22 milioni di cittadini coinvolti. Sono numeri enormi e sono il sintomo di un malcostume che danneggia la collettività e le imprese sane.

Passiamo al mercato del lavoro: più occupati, ma anche più cassa integrazione e difficoltà nel reperire personale qualificato. Come leggere questi dati?

È un fenomeno complesso e legato a cause esterne all’Italia. Le tensioni internazionali, il costo di energia e materie prime, la crisi tedesca sulla manifattura: tutto questo pesa sulle nostre filiere, soprattutto sull’export. La Germania è il nostro primo cliente e quando rallenta, rallentiamo anche noi. Parallelamente c’è il vero grande problema: la mancanza di lavoratori specializzati. Da anni diciamo che la formazione deve dialogare in modo concreto con l’impresa. Senza questo collegamento creiamo giovani preparati ma non adatti alle esigenze produttive. Abbiamo casi virtuosi in Veneto, anche a Verona, soprattutto nei centri di formazione professionale privati, spesso di matrice cattolica, che hanno saputo costruire un ponte tra formazione e lavoro artigiano e tecnico. Ma servono politiche più forti, strutturate e diffuse.

In questo quadro, qual è il ruolo delle imprese e che lettura fate sui rapporti tra PMI e grandi industrie?

Prima la cornice. Per grande impresa intendiamo aziende sopra i 250 dipendenti, poi ci sono le medie tra 50 e 249, le piccole tra 10 e 49 e le micro fino a 9. In Italia – e in Veneto – le grandi imprese sono appena lo 0,2% del totale. Sono poche, ma hanno numeri eccellenti: la produttività per addetto supera di circa due punti quella tedesca. Ancora meglio fanno le medie imprese, con valori superiori anche del 13–14%. Le piccole viaggiano su un +11–12% rispetto alla Germania. Dove invece c’è criticità forte è la microimpresa: da sola o con pochi addetti, produce circa un terzo in meno rispetto alle omologhe tedesche. Questo impone riflessioni politiche: abbiamo bisogno di grandi imprese, perché generano filiere e traino industriale; le piccole e medie vanno sostenute; la microimpresa, pur con limiti di produttività, è la vera ossatura sociale dei territori. Dove sparisce una bottega, cala la qualità della vita. Ecco perché chiediamo strumenti a sostegno, non solo economici ma normativi, formativi, di sicurezza e credito. Lo definiamo “reddito di comunità”: creare contesti che rendano possibile aprire o restare attivi anche nei piccoli centri.

C’è anche il tema del credito: negli ultimi anni il Veneto ha perso molte banche territoriali. Con quali conseguenze?

Lo diciamo da tempo: sono rimaste sostanzialmente solo le BCC, che fanno un lavoro meritorio. Per il resto, molte banche venete sono state assorbite o sono sparite. Una regione fondata sull’economia reale non può rinunciare al legame con operatori del credito vicini, capaci di leggere e finanziare le imprese del territorio. Non entro ora nel merito degli strumenti, ma è una criticità che deve essere affrontata. Dove c’è credito, l’impresa investe; dove non c’è, l’impresa frena. Verona, da questo punto di vista, è un caso positivo: è la provincia più forte del Veneto e tra le più solide d’Italia, prima anche nell’export agroalimentare. È giusto dirlo, perché rappresenta un’eccellenza reale.

In conclusione, quali sono secondo lei le priorità per la Regione e per il nuovo Consiglio?

Servono interventi su tre piani: burocrazia, formazione e microimpresa. La Regione non può risolvere tutto, ma può fare molto, perché la competenza sulle micro e piccole imprese è proprio regionale, per Costituzione. Bisogna aiutare chi crea ricchezza, chi presidia i territori, chi tiene vive le comunità. Se vogliamo un Veneto competitivo, attrattivo e capace di continuare a produrre eccellenza, dobbiamo rendere più semplice fare impresa. E questo vale per l’artigiano con due dipendenti così come per la manifattura che esporta. Dopo la campagna elettorale lo abbiamo ripetuto a tutti: la sfida vera si gioca qui.

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